sabato 5 luglio 2008



La camicia al muro

Amore e Roma, in enigmistica si chiamano palindrome le parole e le frasi leggibili anche al contrario. Mi accaddero entrambe con forza di primizia lontano dal mio luogo. Diciotto anni, dal primo all'ultimo ho vissuto nella città di nascita, Napoli, da sterile, senza amare nessuna ragazza nei quartieri dell'adolescenza. Solo nell'isola di fronte, un'estate, mi spuntò amore per una ragazza di Roma. E quando a diciotto anni evasi dal mio luogo di fondamento e sud,andai in quella città, perchè mi era restato amore,poco,però buono a far girare da quella parte uno che si scioglieva dal suo centro ed era equidistante da ogni stazione di arrivo.
Lei era più grande, studiava architettura, fumava. Io mai capace di tabacco, derivati e affini, mi ero scrollato di dosso studi, case, famiglia, città.Ero spaesato e spiritato. Ci sono decisioni prese in età aspra che non cedono più,conficcate in chissà quale osso.
Come molti arrivati senza invito, Roma fu all'inizio ferrovia. Nei suoi paraggi trovai brande in camere mobiliate, insieme a sconosciuti. Non sono mai stato così solo, una buona condizione per innamorarsi o perdersi. Non fui disperso perchè intorno c'era una strana collera di gioventù, politica, ma niente da mischiare con partiti. Spartita, irregolare, senza congressi, affiliazioni, tessere, aveva per campo la strada e per parlamento le assemblee. Sbatteva contro polizie, tribunali, prigioni. Fui dei loro perciò non mi sono disperso. Mi sono innamorato, non della prima, dell'isola, ma della sorella, sedici anni, spaventosa di volontà e bellezza. Aveva mani spellate da un malanno, il solo che ho amato. Veneravo quelle dita screpolate, rosse, indolenzite, non l'ha creduto mai. Fosse stata lebbra gliel'avrei leccata per appiccicarmela alla lingua, fosse stata morte l'avrei voluta io. Meno di questo, l'amore non è niente.
Succedeva l'anno millenovecentosessantanove, più duro e lungo dell'annata di assaggio sessantotto. In molti imparavano il pianto artificiale dei lacrimogeni, le zuffe delle cariche, i cellulari. Chi ero, cosa potevo dire di me:niente. Non ero niente e di nessun luogo. Ero uno dei molti, che a volte erano pochi a contarli in un cortile di questura, in mezzo a un indurita rappresaglia di uomini in divisa. Ero uno, anche meno di uno. Però amavo. Amavo la ragazza dai capelli lisci, messa di profilo in una fotografia di primavera ai fori romani, una nostra passeggiata. Amavo la ragazza che mi aveva accolto nelle spalle larghe, come fa, con una barca, una tempesta.
Mi contavo i muscoli, le ossa, com'ero poco, mi contavo gli anni, le monete:come potevo tenerla? Lei cresceva, era un'estate di fichi d'India e una catena di baci esauditi. Non avevo altro da desiderare oltre l'uscio dei baci. Più della libertà ho aspettato il minuto bollente in cui quattro labbra sospendono il respiro e si mischiano per gustare se stesse attraverso altre due e si confondono per appartenersi.
Lei stava in casa, io in stanze, ci s'incontrava raramente soli. I baci sono anticipo d'altre tenerezze, sono il punto più alto. Dalla loro sommità si può scendere nelle braccia, nelle spinte dei fianchi, ma è trascinamento. Solo i baci sono buoni come le guance del pesce. Noi due avevamo l'esca sulle labbra, abboccavamo insieme.
Era inverno e stavo in una stanzetta, la prima in affitto, vicino a Villa Ada. Avevo inchiodato al muro una camicia. Si aprivano i bottoni e dentro c'erano due fotografie, sue. Mi venne a trovare di nascosto, ero ammalato. Sbolliva addosso a me una qualche febbre spessa e prepotente. Aprendo la porta mi sono tenuto forte alla maniglia.Mi ha preso stretto, come abbracciare inverno, brividi battenti, marmo dentro i piedi. Il corpo era duro di freddo, mentre avrei voluto nelle vene più cioccolata che sangue. Mi tenne nel suo cappotto di pelle di montone foderato a lana. Chiuse la porta col tacco e mi spinse all'indietro verso il letto senza all'entare l'abbraccio.
Mi stese, poi si tolse i panni lasciandosi una veste bianca, lieve. Entrò nel buio delle coperte e mi coprì tutto il corpo col suo. Stavo sotto di lei a tremare di felicità e di freddo. Le nostre parti combinavano una coincidenza, mano su mano, piede su piede, capelli su capelli, ombelico su ombelico, naso a fianco di naso a respirare solo con quello a bocche unite. Non erano baci, ma combaciamento di due pezzi. Se esiste una tecnica di resurrezione lei la stava applicando. Assorbiva il mio freddo e la mia febbre, materie grezze che impastate nel suo corpo tornavano a me sotto peso di amore. Il suo teneva sotto il mio e il mio reggeva il suo, come fa una terra con la neve. Se esiste un'alleanza tra femmina e maschio, io l'ho provata allora.
Durò un'ora, di più di ogni sempre. Prima di andare rise della camicia al muro. E' la mia crocifissione abbottonata. Non glielo dissi che dentro c'era lei. Non venne più. L'inverno ci staccava. Era venuta per lasciarmi e invece s'era stesa a guarirmi. Le cose migliori dell'amore accadono per caso, si capiscono dopo. Credevo che quella visita era inizio per noi di più vasta vita insieme, era termine invece. Credevo al dopo ed era il prima. Mi sbattevano in testa a colpi di campana le sillabe del poeta spagnolo:
"Per andare al nord,andò al sud./Pensò che il grano era acqua/si sbagliava./Pensò che il mare era cielo/e la notte la mattina./Si sbagliava./Che le stelle erano rugiada/e il caldo una nevicata/si sbagliava".

(E.De Luca,Il contrario di uno)

2 commenti:

Spippy ha detto...

"Era venuta per lasciarmi e invece s'era stesa a guarirmi."

Ma una persona, mi chiedo io, puo' davvero guarirne un'altra? Esiste davvero qualcuno che puo' far capolino nella tua vita, sdraiarsi addosso a te e combaciare perfettamente con ogni tua parte? Che puo' assorbire le tue paure, farle evaporare, che puo' cucire ferite vecchie ma ancora sanguinanti?

Forse esiste. Sarebbe bello.

Ma se esistesse. Mettiamo che esistesse per davvero. Sarebbe poi così semplice, mi chiedo ancora, lasciarsi curare? Sarebbe poi così automatico lasciarsi andare? Perchè c'è anche chi, io lo so, dentro alle sue ferite ci si tuffa, ci si nasconde. E vorrebbe tanto uscire fuori, ma poi, alla fine, è sempre là. Lontano da quella persona che ama più di se stesso, ma alla quale non permette di farsi conoscere ed amare.

JAENADA ha detto...

Nascondersi nelle proprie ferite,rimenerne intrappolati e non permettere di farsi conoscere ed amare in alcune circostanze è manifestazione di saggezza e non di vigliaccheria.C'è una parte di noi che agisce a tutela di un pericoloso istinto suicida e omicida.E' quella stessa parte che soccombe quando pensiamo di affidare ad altri la guarigione di noi stessi.