venerdì 25 luglio 2008



La banalità del male

"La morte è un capomastro serbo", scrisse uno scrittore vero, Marko Vesovic, calcando Paul Celan. La morte mieteva all'ingrosso e al minuto la città assediata, affare di granate e di bombe d'aereo, migliaia in un giorno, o di cecchini divertiti dalla gara al bersaglio più ambito - i bambini, più piccoli, punteggio più alto. Tutti i giardini della città assediata erano diventati cimiteri, nei cimiteri i morti giovani sorpassavano i vecchi, i professori bruciavano i libri per scaldarsi un pò e tutti facevano la fame e le signore badavano a indossare almeno una biancheria intima decorosa, prima di uscire, per il caso di essere colpite e soccorse.
In questi giorni Mihaela Secrieru, di ritorno dall'11 luglio di Srebrenica, dove ancora in decine di migliaia si sono radunate a ricordare e dare sepoltura ai corpi esumati dell'anno, mi ha mostrato una quantità di immagini della nuova vita di Sarajevo. Mi hanno colpito soprattutto le chiome degli alberi, dei pioppi cipressini che svettano in gara coi minareti di Bascarsija: che si fossero restaurati i minareti me lo aspettavo, che i pioppi avessero resuscitato le loro fronde verdi sui moncherini mutilati dalla pioggia di granate, questo mi ha commosso di più. E' troppo facile figurarsi che cosa sia successo dentro i corpi e le anime dei sarajevesi. "Festeggiato"? Certo, hanno salutato la cattura di Karadzic come un pezzo di ciò che è giusto, che deve essere, che doveva essere da tanto tempo. Ma quella notizia arrivata nella notte da Belgrado ha grattato via la leggera vernice della normalità, gran traffico d'auto, bentornato inquinamento, ragazze dalle gambe lunghe e dalle gonne corte, e malavita e droga da tempo di pace, la vita insomma, e ha restituito alla memoria di ciascuno le notti di allora, le notti ubriache del boia di Pale e le notti di coprifuoco senza luce ne sonno della gente di sotto, ammazzata dentro le sue stesse case, umiliata nei suoi stessi sogni.
Quella gente ha visto per anni, mentre faceva la fame e tremava di freddo e seppelliva i suoi, lo psichiatra ciarlatano che si passava la mano nella cresta dei capelli e la concedeva ai grandi della terra, ai presidenti dell'Europa, ai capi delle Nazioni Unite. E a Pale e a Ginevra i giornalisti facevano la coda per sentirlo: privilegio della modernità, al tempo del ghetto di Varsavia e di Auschwitz non era così facile andare a intervistare Eichmann e brindare con lui. Questo dilettante di tutto, della paranoia e della strage, adesso andrà all'Aja. Magari è libera la cella che toccò a Milosevic. All'Aja è interdetta la pena di morte. Tutto il resto gli è dovuto.


(A.Sofri)

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